Capitolo 11

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Questa volta, quando entrai nella Porsche nera splendente di Miller ero in orario.

Avevo chiesto a Donna quando sarebbero finiti gli allenamenti per potermi organizzare, perché sapevo che il moro non me l'avrebbe mai detto, giusto per tenermi sulle spine.

Quel pomeriggio rimasero a casa Gabe e Dave con i più piccoli per cui appena lo vidi arrivare dalla finestra della mia camera, in fretta sfrecciai giù per le scale e, dopo un rapido saluto rivolto a tutti, uscii di casa.

La prima cosa che constatai una volta salita nella sua vettura, fu che non si fosse fatto la doccia. I capelli erano leggermente bagnati di sudore e per questo motivo arricciati. Il volto rosso, forse dovuto al fatto del sangue che ancora dovesse regolarizzare il suo flusso per lo sforzo compiuto e per il calore della giornata. Inoltre, indossava ancora i vestiti da allenamento, quindi pantaloni corti fino a metà coscia sintetici, sotto pantaloncini aderenti sportivi e una maglietta nera aderente traspirante, rigorosamente a maniche lunghe.

Realizzai in quel momento che nemmeno una volta avesse mai indossato qualcosa di corto sulle braccia. Erano sempre coperte. Mi chiesi se ci fosse un motivo serio o semplicemente gli piacevano le cose lunghe e non amava mostrare tanto del suo corpo. Oppure era un freddoloso.

La cosa positiva era che il materiale elastico e stretto si legava al braccio in modo perfetto, permettendomi di vedere ogni riflesso dei suoi muscoli delle braccia che erano ben marcati e possenti.

«Non pensavo saresti stata in orario.»

«Hai poca fiducia in me, Miller.» ribattei con altezzosità e tamburellai le dita sulla maniglia, «come sono andati gli allenamenti?»

Mi mordicchiai il labbro in modo nervoso pensando che forse poteva suonare come una domanda troppo strana e amichevole. Il nostro livello di conoscenza non era così elevato da poter iniziare quel tipo di conversazione, o almeno credevo io. Ma mi sembrava maleducato non chiederlo.

Inoltre, parlare di altro mi avrebbe tenuta lontana dal ricordo dei messaggi scambiati per via delle foto dei vestiti mandate per sbaglio. Non mi aveva mai risposto e io non volevo in nessun modo tirare fuori quell'argomento o l'Homecoming, per cui dovevo mostrare interesse in altro. 

Alzò una spalla continuando a fissare la strada, «normale.»

Come al solito, sempre di molte parole.

«Il coach è stronzo? Ricordo che con Jordan era stronzo all'inizio...»

Mi lanciò un'occhiata veloce, un impercettibile cipiglio sembrò crearsi ma sospirò per tenere tesa la pelle per non mostrare troppe emozioni, «no, andiamo d'accordo.»

Avrei voluto sapere altro, sia perché ero curiosa sia perché mi faceva piacere sentirlo parlare. Ma date le risposte concise e vaghe, capii che sarebbe stato meglio interrompere il mio interrogatorio.

E così feci per il resto del tragitto.

Anche lui non parlò, non che fosse una novità. Però, a differenza della prima volta, a riempire quel silenzio c'era la radio accesa su una frequenza di musica di vario genere. 

Come la prima volta, salimmo nella sua villa moderna dall'ascensore nel box auto. Il silenzio in quel cubicolo di metallo era assordante, esattamente come in macchina.

Lo seguii fuori dall'ascensore e, al posto di salire su per le scale, attraversammo l'ampio corridoio per arrivare in soggiorno. Come immaginavo era tutto perfettamente in ordine e pulito.

«Qué bueno! Siete arrivati.» esclamò Gloria sbucando fuori dalla cucina, indossava un grembiule scuro sopra i suoi vestiti ed era macchiato di farina.

It's a ClichéWhere stories live. Discover now