Capitolo 64

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«Rosalìa Acosta...»

Osservai una ragazza alzarsi e dirigersi verso l'assistente che l'aveva appena chiamata. Era in un tailleur bianco e portava un tiratissimo chignon.

Dio, stavo per vomitare.

Le mani mi sudavano e avevo lo stomaco in subbuglio. La mia gamba tremava su e giù e tra tutti i presenti -che erano moltissimi- sembravo essere quella più nervosa.

Tra poco sarebbe toccato a me.

Ci era stato detto che avrebbero chiamato in ordine alfabetico e dannato mio padre che faceva Adams di cognome.

Fissai la benda che nascondeva il cerotto sul dorso della mano destra e strinsi le mani in un pugno mentre prendevo un profondo respiro.

Andrà tutto bene, Makayla. Sei brava.

Eravamo tutti fuori dall'auditorium. Lo stesso in cui mi aveva portato Hayden quando eravamo stati qui, ma in un corridoio diverso.

Quella mattina mi ero svegliata con un terribile bruciore al dorso dovuto alla ferita, una nausea orrenda e i messaggi di Hayden. Chiamarlo fu la prima cosa che feci, mentre il mio cervello doveva ancora azionarsi. Gli avevo nascosto della ferita perché non era il caso di parlarne via telefono, inoltre non sapevo nemmeno come iniziare quel discorso. 

Ciò che mi aveva stranita, però, era che avrebbe dovuto aiutarmi a scegliere cosa mettere ma ad un certo punto era sparito. Non mi aveva più risposto fino a che non ricevetti un messaggio, un'ora dopo quelli che avevo mandato io, che diceva: scusa se sono sparito, ti spiegherò quando torno. Chiamami appena finisci. Buona fortuna, bellissima

Anche i miei genitori e amici mi avevano scritto e non avevo risposto a nessuno di loro. Avrebbe solo aumentato la mia ansia. 

Mentre venivo qui con i mezzi, avevo ripassato mentalmente tutti i pezzi. Mi ero soffermata sui consigli di Hayden e speravo che, una volta seduta al piano, sarei riuscita a seguirli.

Quella era la mia unica chance. Era ciò che avrebbe potuto svoltare per sempre la mia vita. Doveva andare bene.

O adesso, o mai più, Makayla.

Fissai la punta dei miei stivaletti neri. Avevano un po' di tacco e li avevo indossati con i pantaloni a zampa morbidi neri e un maglioncino a trecce bianco. Era semplice come outfit e infatti mi sentivo un pesce fuor d'acqua in mezzo a quei perfetti e seri abbigliamenti dei presenti. Ma non dovevo sfilare. Non dovevano giudicare i miei vestiti, dovevano giudicare la mia musica, come suonavo, e mi concentrai su quello.

Buttai fuori un profondo respiro e mi scrocchiai il collo fissando davanti a me. Stavo morendo dall'agitazione. Probabilmente ero dopo quella ragazza e il mio cervello pensava ancora di essere a Greenville.

Passarono i minuti.

Vidi ragazzi alzarsi e camminare per il corridoio. Alcuni parlavano a bassa voce in piccoli gruppetti, io mi ero isolata da tutti e non volevo essere avvicinata da nessuno. Ero nella mia bolla che a momenti sarebbe scoppiata.

Potevo farcela. Non dovevo sbagliare.

La porta dall'auditorium si aprì e la mia testa scattò come una molla a destra. La ragazza che era entrata un quarto d'ora prima, stava uscendo a testa bassa e singhiozzante.

Oh no...perché piangeva? Cos'era successo? Oddio, mi veniva da vomitare--

«Makayla Adams.»

Cazzo.

Sgranai gli occhi e le mie gambe si alzarono in automatico. La donna mi regalò un amichevole sorriso che ricambiai con una specie di smorfia.

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