Capitolo 62. Ci sarebbe bisogno di tanti ceri, ma non ce n'è manco uno

43 9 39
                                    

<Potremmo mirare al cuore o al cervello.> propose Ivan.
Mosse il suo magico tubo del dolore e trafisse due soldati con acuminati spuntoni di ghiaccio. Uno al cuore e uno al cervello.

Entrambi morirono, ma solo da quello a cui era stato frantumato il cranio ne spuntò subito un altro.

<Oh, è il cuore. È una cosa quasi poetica, suppongo.> commentò il russo, buttandosi nella mischia senza tanti pensieri, facendo spuntare sul tubo spilloni di ghiaccio per annientare per sempre i nemici.

<Uffiiii, non è semplice colpire il cuore!> lagnò Gilbert, schivando un colpo di baionetta per miracolo <Anche se è sempre più semplice del cranio.>

<Vuoi dirlo a me?! Non ho niente di affilato!> ribatté Giuseppe, lavorando in sincrono con Mario. Lui li stordiva e il laziale li trafiggeva con il gladio nel petto, ogni tanto estraendo con la lama pure il cuore, che si dissolveva in polvere.

<Dritto al cuore...> mormorò Giorgio, usando il prussiano come mezzo scudo umano, rovistando tra le sue carte.

Nessuna di esse funzionava senza rischiare di ammazzare gli altri e non gli sembrava il momento di iniziare il fuoco amico.

Alzò lo sguardo su Aleksander, vicino la bandiera, che cambiava continuamente colori, come le divise dei soldati.
Era tutto lì il problema. Il cuore.
Metaforicamente parlando.

Era diviso.
E lui doveva trovare il modo di ricucire i due frammenti in lotta, anche se di solito era lui quello a strappare tutto ciò sul suo cammino.

Strinse la presa sul suo mazzo di carte, frugando alla ricerca di un'altra tipologia di magia.
Sperò che la possessione non avesse fatto dimenticare ad Aleksander il loro amore. Rabbrividì al pensiero.
Sarebbe stato orribile, mettersi così tanto in mostra per ricevere un'occhiata gelida o, peggio, derisoria.

Tirò fuori il Mago e lo usò sul proprio petto. Raggiungere un obiettivo. Fece un passo avanti e si teletrasportò accanto Aleksander.
Prima che l'altro potesse reagire, gli afferrò il polso che teneva l'ascia, gliela levò di mano e lo buttò a terra, ingabbiandolo, più o meno.

Voleva sì ricucire, ma doveva stare attento a non essere tagliuzzato.
<Ora tu mi stai a sentire.> il veneto calcò ogni parola. Non allentò la presa, anche se metà della sua testa glielo ordinava.

Quei dannati occhi, che parevano il perfetto incontro tra mare e montagne, come Trieste, per qualche fugace istante l'avevano ingabbiato in un'occhiata estremamente famigliare.

Poi, con una pugnalata al petto del più giovane (sempre metaforica, e per fortuna!), quegli occhi tornarono vacui.

<Ti ricordi che nome avevi prima di Aleksander?> indagò Giorgio.
Il friulano non vi rifletté troppo su, dichiarando: <Igor.>
<E perché l'hai cambiato in Aleksander, una volta territorio italiano? Te lo ricordi?> incalzò il veneto.

Il fidanzato aggrottò le sopracciglia, gli occhi di nuovo vispi, e aprì la bocca. Emise solo un verso rantolato, gli occhi che lo evitavano.

Combattendo l'imbarazzo, conscio che chiunque in quella piazza poteva vederlo, si mise quasi naso a naso con Aleksander, per impedirgli di fuggire al suo sguardo.

<Non mi scappi.> sibilò Giorgio.
Si concentrò su quegli occhi vuoti, raccolse tutta la determinazione che poteva racimolare, e aggiunse: <Allora te lo spiego io.>

Allontanò leggermente il volto, grato di vedere le iridi eterocrome seguirlo rapito, e spiegò: <Hai scelto Aleksander per non ignorare la tua parte slovena, ancora sotto il dominio austriaco, come gran parte dei tuoi territori, allora. Ma ti è piaciuto Aleksander anche perché aveva un corrispettivo intuibile in italiano: Alessandro. E, da accorciato, "Ale", poteva valere per l'uno e per l'altro. L'hai scelto perché come te permetteva di avere un collegamento ad entrambe le realtà che tu sei. Non devi scegliere. Puoi accogliere, integrare. E Trieste, cazzo, ne é l'esempio migliore.>

Gabbia di séDove le storie prendono vita. Scoprilo ora