TORTURE I

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Mi trascinano.
Dove vogliono portarmi?
Dove sono?
Cos'è questa sensazione?
I piedi levigano il pavimento gelido, la testa dondola guardando il fondo. Il mio corpo si lascia andare alla loro forza.
Sono in due, vestiti di bianco.
Il mostro fra gli umani, pure attraverso gli indumenti si può notare.
Mi sono svegliata guardando le mattonelle grigie di questo lungo e freddo corridoio, di uno scuro abbagliante. I passi rimbombano, creano eco da quando le mie orecchie l'hanno udito, la vista è sfuocata da macchie bianche e violacee. Spero non mi abbiano somministrato della droga, o qualsiasi cosa mi stia provocando tutto questo strano malessere. Come se anche alzandomi la gravità mi buttasse a terra. Forse anche peggio, mi sento incollata al pavimento.
Dovevo apparire forte invece sono qua che mi adagio alla loro presa sulle mie braccia, mi sento morta.
Cosa avranno in serbo per me?

Vedo la fine del corridoio che ondeggia nell'aria.
Una porta in ferro grigia mi divide dal mio primo incontro, sento qualcuno al di là della porta.
Gli uomini si bloccano a un centimetro di distanza dalla superficie liscia e fredda, questa si apre in due rivelando una stanza buia agli angoli e luminosa al centro. Un tavolo in metallo se ne sta in mezzo affiancato da due sedie dello stesso materiale.
L'ultimo tragitto smorto, i due umani in bianco mi buttano a peso morto su una delle due sedie.
Una macchina da scrivere, a quanto sembra, mi nasconde la visuale dell'altra sedia.
Mi sento stanca, non riesco neanche a pensare.

Entra qualcuno, non mi interessa quindi non mi giro, sarà lui ad entrare nella mia visuale.
Un uomo dal completo elegante con giacca bianca abbottonata fin sul collo, porta una cravatta nera lucida.
Si siede dalla parte opposta a me. Vorrei che venisse più vicino così da strangolarlo, quel O'Connor.

Lui digita un tasto dell'attrezzo che ci divide, questo inizia ad emettere uno strano rumore, come di stampante?
Gli stessi uomini mi attaccano sulla fronte delle ventose bagnate e fredde, collegate a dei fili.
Aspetta.
Da una fessura la macchina fa scivolare fino a terra una lunga striscia di carta, percorsa da una linea nera. Un braccio meccanico incide sulla carta bianca.
Non ci posso credere è una macchina della verità!
Non è possibile.

-dimmi, dove si trova il tuo amico?- parla il generale, sporgendo dalla sua schifosa bocca queste parole a me stranamente familiari.
O forse no.
-non so di chi stia parlando...- voce ferma.
-lo sa invece Blum, non può mentire- continua lui provocandomi.
Un suono ripetuto esce dal aggeggio dalle parole facili.
La riga forma delle montagne nere sulla superficie bianca.
-...non so a chi si riferisca- voce dura.
-d'accordo. Dove abita tuttora, Blum?- aggrotto la fronte in segno di incomprensione.
-...mi sembra logico, in una stanza bianca, non ricorda?- cerco di farlo arrabbiare. Voglio sentire di che pasta è fatta la sua mente criminale.
-...per oggi abbiamo basta, portatela nell'altra stanza e preparate le catene- si rivolge ai due manichini bianchi accostati ai fianchi della porta.
Questi avanzano verso di me strappano dalla mia cute le ventose ormai calde.

Ora sono io a camminare, loro strisciano cercando di farmi rallentare.
I miei occhi non percepiscono più nulla, guardano qualsiasi cosa in modo indifferente. Non mi interessa, guardo ma non me ne accorgo e non dò retta al luogo che mi circonda, in cui mi hanno rinchiuso.

Scale, scendiamo delle ripide scale gelide in marmo bianco dalle strisce grigie. Una nuvola di cloro invade il mio corpo infiltrandosi nei miei polmoni e facendomi lacrimare gli occhi.
Ci stiamo avvicinando ad una piscina, cosa vorranno farmi? Qualche vasca a nuoto per valutare la mia resistenza sott'acqua?
Non penso proprio.
Non c'è nessuna porta che divide l'area dalle scale.
Una piscina rettangolare dall'acqua azzurra, piastrellata blu scuro.
Mi portano fino al bordo, no gli porto fino al bordo, dove l'acqua cerca invano di evadere dalla sua cella ma con inutili tentativi.
Come la capisco.
Guardo la superficie che turbina dalle correnti e per l'aria gelida che soffia in quella stanza in penombra.

Clack.

Uno scatto mi fa sobbalzare e una presa mi fa rabbrividire, mi hanno messo delle manette ai polsi e alle caviglie. Una lunga catena tintinna al suolo collegata ai miei arti.
Sento dei movimenti alle mie spalle ma non mi volto a curiosare.
Sento delle catene e non sono le mie.
Una mano gelida si appoggia alla mia schiena, riesco a sentirne il freddo anche attraverso la tuta. Una scossa percorre la spina dorsale. So cosa vogliono fare ma non l'avranno mai vinta.

Mi spinge e io attraverso quel confine tra aria leggera e acqua densa. Sembro varcare la superficie dello specchio nel mio sogno, freddo e silenzio.
Il nulla mi circonda, dalla superficie controllo le sagome bianche che mi deridono, sento tutto soffocato.

Un uomo si sporge e lancia una rete che si scaglia nell'acqua provocando un boato sopra di me. Un turbine di bollicine rincorre il confine e si unisce a loro e all'aria.
La rete cala, vuole raggiungere il fondo trascinandomi sull'abisso
piastrellato. Una rete per pesci in metallo ma l'unico pesce qui sono io.

Il ferro si avvicina e l'acqua ribolle scaldandosi. Un turbine di calore precede il dolore, la rete si affaccia ai miei occhi e scotta la pelle bianca. Sento il dolore ma non gli dò retta, cercherà in qualsiasi modo di non farmi ragionare.
Mi opprime rubandomi la logica.
Gli umani non fanno altro che ascoltare il dolore mentre io non faccio altro che provocare il dolore.

Delle ferite si aprono sulla mia cute e scie rosse si mescolano con la limpidezza del liquido che mi tiene sospesa. Il potere dell'avarizia mi trascina con se, la mia schiena si scontra con il fondo blu che diventa nero.
Il mio sangue indossa una maschera, copre la sua vera essenza e il mio vero essere.
Un rumore invade i miei timpani. L'acqua mi parla, prova i miei sentimenti e si lascia bruciare insieme al mio corpo.

Il ferro si ritrae insieme al calore da lui provocato. Le figure bianche mi sollevano dalla poca quiete che mi sono permessa. In fondo mi sentivo come a casa lì sotto, insieme al solito dolore che mi ha accompagnato per tutta la vita.

Sono fradicia, la tuta è tutt'uno con la mia pelle, appiccicata. Le gocce fredde contornano il mio corpo, scendono per raggiungere il pavimento.
Non mi è stato dato nessun asciugamano o un nuovo indumento, uno sguardo o una parola.
Mi hanno buttato dentro la stanza bianca a led. Non sono riuscita nemmeno a vederla la porta, sono sparita.
Sono il nulla accerchiato dal nulla.
Non profumo e non odoro, non sono rumore e non sono silenzio, non ho colore.
Infondo sono come la camelia che nasce da sola, non ha profumo, e muore in solitudine in modo tetro e silenziosa.
Però non sono rossa, sono nera, una camelia nera senza profumo.

Non mi interessa cosa vogliono farne di me, del mio corpo e del mio potere, solo non toccate chi voglio bene, a chi ho donato il mio cuore e il mio amore.
Osate solo cercarli e vi polverizzo.
Vi darò la stessa fine delle tre ragazzine.

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Don't forget my eyesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora