Capitolo 212: Domenica, 22 luglio 2012

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Un'altra notte insonne.

Stavolta il dolore non c'entra, non quello fisico, almeno; per quello c'è l'antidolorifico, di cui tra l'altro i tempi tra una dose e l'altra si stanno allungando, segno che il mio corpo si sta abituando al fattore G.

Alle 3 vengo svegliato da delle urla davvero laceranti.

Mi alzo dal letto, disorientato, cercando di capire cosa stia succedendo e apro la porta. Le urla sembrano provenire dalla camera accanto.

Muovo qualche passo in quella direzione e avvicinandomi, oltre alle urla sento i pianti, i singhiozzi, il nome Luca ripetuto più volte, con tono straziante.

Rimango immobile, nello spazio tra le due camere, col respiro corto, incerto se andare a vedere oppure no, quando Laura esce proprio da quella stanza e mi vede.

"Leo, cosa fai qui?!"

"Laura, cosa..."

"Torna a letto, su!"

"È morto qualcuno? È così?" le domando con la voce che mi esce appena.

Lei annuisce in silenzio, con lo sguardo basso. "Torna in camera".

Deglutisco e le gambe mi tremano mentre torno nella mia stanza, chiudendo la porta alle mie spalle, come se potesse bastare a lasciare fuori tutto quello strazio.

Mi siedo per terra, con la schiena appoggiata alla porta, rannicchiando le gambe.

Più sento quelle urla disperate, più ho voglia di urlare anch'io.

E di scappare via, anche.

Ho voglia di scappare via urlando.

Luca.

Non lo conoscevo, non personalmente almeno, non so a che faccia corrisponda quel nome, ma di vista conosco tutti quelli del mio corridoio.

E so benissimo che nel mio corridoio siamo tutti ragazzi, più qualche bambino.

Chiunque fosse Luca non aveva più di vent'anni.

Ho la nausea e tremo.

Mi viene da vomitare, ma riesco a trattenermi.

Dopo un po' le urla si allontanano, fino a zittirsi del tutto.

Devono averlo portato in camera mortuaria.

Ripenso alla notte che è morta la mamma e a tutte le urla che ho trattenuto dentro di me, in una disperazione silenziosa.

Forse avrei dovuto urlare.

Forse mi avrebbe fatto stare meglio.

È come se quelle urla che ho trattenuto fossero ancora qui a tormentarmi, come se volessero uscire.

Mi alzo dal pavimento e mi butto sul letto, sprofondando la faccia nel cuscino.

E urlo, urlo, urlo, sperando di mandare via questa sensazione opprimente e devastante dal petto.

Vorrei urlare fino a liberarmi da tutta questa angoscia.

Tremo, mi stringo al cuscino, e capisco che non sto urlando solo per la mamma, no: sto urlando anche per me.

Perché Luca potrei essere io.

Perché anch'io sono fottutamente malato.

Perché anch'io sono in questo fottuto ospedale.

A cercare ogni giorno la forza necessaria per vivere.

Anzi no, per sopravvivere.

Perché è questo quello che sto facendo: sopravvivere.

Leo (Io non ho finito)Where stories live. Discover now