Capitolo 122- Soffitto bianco

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Un soffitto bianco, candido come la neve che si posava al suolo in una delle tante giornate fredde di Dicembre

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Un soffitto bianco, candido come la neve che si posava al suolo in una delle tante giornate fredde di Dicembre.

Nonostante la mia visuale fosse estremamente sfocata e persa, quasi paragonabile ad un vetro nella mattina, tracciata dalle dita gelide della bassa temperatura, riuscii a visualizzare quel soffitto bianco, definendo la sua forma e la sua distanza man mano.

Per qualche specifico motivo di cui non ero del tutto a conoscenza, quel bianco mi inquietò, per un attimo, cosa che mi fece distogliere lo sguardo da esso.

Notai dunque le mie braccia, quasi di stesso pallore, quindi odioso anch'esso, notai il 'bip' costante di sottofondo ad ogni respiro che facevo, in parte grazie alla maschera posata sul mio volto che mi permetteva di ricevere ossigeno e dunque mi evitava di soffocare.

Sentendomi come una bambola in un letto e decidendo di dimostrare a me stesso il contrario, provai a muovere le dita di una mano, precisamente provai a farlo con la destra, fissando lo sguardo su di essa con piena attenzione, smettendo dunque di avere una visuale quasi impolverata.

Ma al farlo, per un singolo istante, fu come se la mia testa catturasse un immagine diversa rispetto a quella che teoricamente avevo davanti.

Battei le palpebre più volte, aggrottando le sopracciglia così tanto che non mi sarei meravigliato se esse si fossero paralizzate  lì dove si trovavano.

Ignorai dunque quella momentanea immagine, avuta proprio per quel secondo in croce, un immagine che comunque mi aveva turbato abbastanza, riprovando a muovere le falangi.

Fallii di nuovo.

Il motivo? Altre immagini, no, sempre la stessa, di immagine, che mi si attaccava alla visuale, che la volessi o meno, scomparendo e riapparendo in poco.

Non più la mia mano, ma quella di qualcun altro.

Invece di essere bianche, pallide e sottili, le sue dita erano sporche di sangue, chiuse a pugno attorno ad una macchia rossa, nel mentre che l'odore di uno sparo mi si diffondeva nelle narici con un che di nauseante.

Il mio respiro, il mio battito, presero entrambi ad accelerare vistosamente, senza pause, tanto che sentivo i miei stessi polmoni chiedere pietà, non riuscendo però ad impedire tale procedere .

L'immagine difatti lampeggiava, impedendomi qualsiasi possibilità di calma, scomparendo e riapparendo ad una velocità tale che non riuscivo a staccarmela dalla testa.

Quella mano.

Quel braccio.

Quel petto.

Il sangue che ne colava.

Quello sguardo sofferente.

Nicholas.

Nicholas!

Nicholas!!

Lui... Lui era ferito... Gli avevano sparato... Lui...

Tutti i miei pensieri sparirono nel nulla.

Non seppi esattamente cosa accadde, dopo, semplicemente tutto si oscurò, accompagnato da un lieve brillare che mi ricordava l'oceano e che sapeva, per motivi che non afferravo affatto, di casa.

*

Di nuovo il soffitto bianco.

La mia visuale ci mise molto meno ad individuarlo in maniera chiara.

Potevo perfino osservare la crepa che si tracciava in un angolo, paragonabile ad una ragnatela, con l'unica differenza che non era una tela pendente, ma proprio un graffio nel muro che si diramava in varie direzioni.

Di nuovo le mie braccia.

Stavolta focalizzai le mie attenzioni sui cerotti che tenevano i tubi all'interno del mio corpo.

Erano tanti.

Non mi misi a contarli solo perché la mia attenzione tornò ai bip.

Era molto più lento, calmo, quasi pacifico, seppur il suono fosse ripetitivo e sempre uguale, mi sembrava vagamente trasformabile in un ritmo musicale.

Lasciai perdere il pensiero, provando a tirarmi su dalla posizione in cui ero, riuscendoci solo dopo una decina di secondi, ritrovandomi a fissare dritto davanti a me, laddove vidi una figura a me decisamente conosciuta, seppur non vista da parecchio tempo.

Era addormentata su una sedia, i capelli castani allacciati in una treccia sfibrata, le mani piccole in grembo, molto più anziana di come la avessi vista l'ultima volta per via della serie di rughe che le attraversavano il volto, come righe tracciate da una matita su un foglio.

Vederla mi diede tantissime emozioni differenti, le quali si susseguivano a ritmo anormale, proprio come aveva fatto il mio battito ed il mio respirare in precedenza.

-M... Mamma? - balbettai, deglutendo a vuoto, la voce inudibile per via del volume totalmente spento, nullo, praticamente .

Una sensazione di panico mi salì alla testa, per la seconda volta in un tempo imprecisato, nel vedere tutte le differenze presenti nell'aspetto della mia genitrice, mentre io ero esattamente identico a quattro anni prima.

Vi era quasi della vergogna, per certi versi, forse per l'anormalità di tale fatto, forse perché negli anni del gioco non avevo pensato a lei e lei soltanto neppure una volta.

Certo, non avevo avuto idea a tratti di chi fossi stato realmente nel videogame , però... Anche quando ero stato lucido, non ci avevo mai pensato, a lei, mentre probabilmente lei doveva aver sofferto molto per la mia scomparsa, come per la scomparsa di Nicho.

Mi sentivo come se la avessi tradita, come se non fossi degno di essere suo figlio, non meritevole abbastanza.

Eppure bastò il momento in cui ella aprì le palpebre, svegliandosi dall'iniziale riposo, fissandomi intensamente con quei suoi occhi, uguali ai miei per forma e colore, così stanchi nei primi istanti e poi mutati in un amore misto a gioia, con lacrime che scorrevano copiose, per farmi cancellare totalmente tale pensiero.

-M-mamma- balbettai di nuovo, sorridendole, percependo una sottospecie di calore intenso, qualcosa che mi faceva desiderare di potermi alzare e stringerla, stringerla per scusarmi di essere sparito, perché non vi era cosa peggiore per un genitore.

E perché, nonostante la mia testa non me la avesse riportata alla mente, il mio essere mi suggeriva in indiretto come in realtà mi fosse mancata, siccome, dopotutto, avevo chiamato uno dei miei pianoforti , sapendolo o non sapendolo, con il suo nome, esibito sul camice da dottoressa.

Dr.ssa Dea Collins, neurologia.

Ella scoppiò a piangere a dirotto, con un sorriso in volto che emetteva una radiosità tale da essere contagiosa e che sembrava non essere più contenibile, affatto, anzi, letteralmente straripava, come un fiume in piena.

E così, semplicemente, eravamo in due, persi in lacrime di felicità che non sapevo neppure descrivere, nè riuscivo a dare loro una forma precisa.

E così, semplicemente, eravamo in due, persi in lacrime di felicità che non sapevo neppure descrivere, nè riuscivo a dare loro una forma precisa

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