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Accenno un ultimo saluto con il capo e mi avvio nella direzione opposta a quella presa dall'uomo.
Passo accanto agli alti muretti che circondano le abitazioni: molte di loro consistono in lunghi appartamenti in mattonato grigio, un colore deprimente, eppure in qualche modo apprezzo il mondo in bianco e nero.
Dalle estremità spuntano ciuffi di alberelli da frutto, altre sono siepi verdi ben curate.
Ripenso al vasetto di coccio sul mio davanzale dove, mezzo morto, pende un mazzetto di fiori che mi ha regalato il fioraio al mercato. Il suo fresco lilla ha lasciato il posto a un marrone sbiadito, talvolta un petalo raggrinzito cade a terra e si sbriciola creando una piccola macchietta.
Se potesse vedere in quale stato riduco le sue amate piante, mi denuncerebbe.

Svolto l'angolo immergendomi nello stradone principale della città, una lunga striscia di cemento che prosegue a oltranza, non se ne vede la fine.
Le macchine si muovono veloci.
Per essere solo le sette e mezzo vanno piuttosto di fretta.

Arresto la mia camminata e fisso il semaforo per i pedoni, il rosso brilla minaccioso. Altre persone mi si affiancano e le scruto, notando come molte di loro sorreggano piccole valigette di cuoio o borse così grandi da fare invidia agli zaini per il campeggio.
Cosa nasconderanno in quelle trappole senza via d'uscita?
Nell'osservarle mi sento così leggero, con il portafoglio striminzito nella tasca e nell'altra il cellulare spento.

Come una gara automobilistica brucio il semaforo non appena lo vedo diventare verde per non rimanere incastrato nella calca e beccarmi le solite spallate da chi ha troppa smania di correre.
Imbocco una via secondaria e il tanfo dei secchioni aperti si infila prepotente nelle mie narici, costringendomi a maledire mentalmente la decisione di percorrere quella strada, sebbene sia la più veloce per raggiungere la mia meta.
L'inciviltà dell'uomo non mi stupisce mai: quanto ci vuole a gettare la spazzatura e a richiudere l'apposito contenitore?
Forse troppo. L'importante è lamentarsene, perché a fare questo sono tutti fin troppo capaci.
Giunto sano e salvo dall'altro lato inspiro una boccata d'aria fresca.

Scorgo da lontano la costruzione sanitaria e, facendo lo slalom tra le macchine parcheggiate, guadagno l'entrata.
Appena varco la soglia vengo accolto dal classico odore dell'ospedale, i muri con l'intonaco verde dovrebbero donare una sensazione di benessere al paziente, mentre in me scaturiscono solo un senso di depressione. Insomma, se lo avessero appena dipinto andrebbe anche bene, ma quella tonalità scadente, slavata e in molti punti scrostata, non è il metodo migliore per far esultare i poveracci costretti a recarsi in questo luogo scomodo.
Schiaccio il bottone della macchinetta e stacco il numeretto della prenotazione.
Ventisette.

Fantastico. Sarà una lunga mattinata.

Vago alla ricerca di un posto libero e ne individuo uno proprio sotto la grande pianta al centro della sala.
Siedo ritagliandomi uno spazio tra le foglie, piego la schiena in avanti come un gobbo per non sembrare altrimenti una scimmia nella foresta. Un'anziana signora dall'altro lato mi scocca un sorriso gentile e io ricambio il gesto.
Strano.
Ogni volta in cui le mie labbra si increspano in un sorriso, riesco a percepire la pelle del viso tirare fino a farmi male.
Incrocio le mani e sollevo lo sguardo sulla piccola televisione posta in alto attaccata al muro, le immagini sfilano in una sequenza ritmica. Aggrotto le sopracciglia osservando un gruppetto di quattro ragazzi danzare sulle note di una canzone straniera per nulla consona all'ambiente, credo sia rock o roba simile.
Chi desidera a quest'ora della mattina ascoltare una musica così aggressiva e orribile?
Io no di certo.

Scuoto la testa allibito e mi concentro sulle foglie a terra, una la sfrego tra il pollice e l'indice per coprire, con il suo suono, quell'imbarazzante scenetta dentro una scatola senza vita.
Alla fine nascondo il mio disinteresse dietro uno sbadiglio e chiudo le palpebre per simulare il sonno che in realtà non provo.
Il rumore dei numeri si sussegue con un buon ritmo, e questo mi fa sperare che presto toccherà a me e potrò andarmene da qui.

«Salve.» Saluto l'uomo dietro allo sportello e gli passo le ricette stropicciate, una ha un angolo totalmente piegato, eppure a lui sembra non importare. Le sue dita battono frenetiche sulla tastiera bianco sporco, gli occhi guizzano sullo schermo concentrati sul proprio lavoro.
Mi porge quattro fogli pieni di scritte più una striscia lunga da consegnare alle infermiere.
«Per caso ha stampato anche il foglio per ritirare il responso su internet?» domando cordiale.
Ricevo in cambio una smorfia e un'alzata di spalle.

«Doveva dirmelo prima» risponde schiacciando il pulsante sul bancone di legno laccato.
Ventotto.

Vuole liquidarmi.

«Grazie lo stesso» rispondo e mi allontano in direzione della stanza adibita ai prelievi proprio mentre una signora vestita di turchese prende il mio posto.
Quanto avrei voluto saltare dall'altro lato, accartocciare i fogli delle ricette e costringere quell'uomo a mangiarli uno a uno, spiegandogli come, il mese scorso, una sua collega me l'abbia consegnato senza una richiesta specifica.

Sospiro.
Meglio stare calmi.

Attendo paziente fino a quando non arriva il mio turno e per fortuna l'infermiera è veloce e precisa, non sento neppure l'ago entrare nella vena.
«Tieni premuto per evitare la formazione del livido» mi ricorda per l'ennesima volta da quando vengo qui, posso quasi dirmi un veterano, però la ringrazio comunque.
Prima di uscire scruto l'orologio al polso: le nove e mezzo. Faccio ancora in tempo ad andare a scuola.
Affretto il passo ripercorrendo il tragitto di quella mattina, trovandomi ben presto di fronte al portone del palazzo.
Entrato in casa inspiro l'aroma del caffè forte; impregna ogni centimetro del salone, sembra averlo inghiottito completamente.

«Com'è andata?» Mio fratello è seduto al tavolo tenendo tra le mani una tazza di ceramica da cui si sollevano nuvolette di vapore.

«Tutto bene, nella norma. Scusa, faccio tardi a scuola» ribatto e stronco in fretta ogni altro tentativo di conversazione tuffandomi nella mia stanza.
Infilo nello zaino alcuni materiali da disegno, un astuccio colmo di matite e pennarelli, e infine estraggo il libretto blu delle presenze e torno nel salone.
Lo lancio sulla tavola vedendolo girare su se stesso fino a sbattere contro il suo braccio.
«Puoi firmarmi il permesso per entrare in ritardo?»
Alterno il peso da una gamba all'altra in attesa di una risposta, i miei occhi immersi nei suoi.

«Ma certo» conferma ed estrae una penna dal taschino della camicia bianca, proprio dove la tiene di solito. «Vuoi che ti accompagni?» aggiunge e scribacchia veloce rendendomi l'oggetto.

«No, grazie, faccio una corsa.» Me lo metto in tasca e calpesto il pavimento fino alla porta, celere ed evasivo come sempre.

«Non ti stancare...» inizia a dire, ma lo interrompo fulminandolo con lo sguardo, la mascella serrata e il fiato pesante fuori dal naso.
Perché non può concedermi un attimo di respiro ma adora sputarmi addosso il fatto di non essere spensierato come i miei coetanei?

«Lo sai che sto bene» rispondo a denti stretti. Mi volto, esco sul pianerottolo e sbatto la porta alle mie spalle.
Non la sopporto la compassione nei suoi occhi, la preoccupazione priva di un motivo apparente.
Senza quasi accorgermene mi ritrovo a pochi passi dal cancello della scuola, il perimetro solitamente affollato, a quest'ora si presenta deserto.
La grande struttura si staglia vantando una moltitudine di finestre; il portone principale è incassato in una rientranza a punta dove sventola una vecchia bandiera messa lì chissà da quanto; l'orologio quasi tocca il tetto piatto ed è fermo da secoli.

Deglutisco.
Ho il fiatone e cerco di darmi un contegno tossendo un paio di volte, sfrego le guance rosse dalla corsa e schiarisco la gola.

Un bel respiro, Damien. Lascia i problemi a casa, concentrati sulla prossima prova.

Una delle più difficili: sembrare un ragazzo come gli altri, uno del branco.
Compito assai complicato, ma non impossibile.
Ce la posso fare.
Con quel chiodo fisso nella testa metto piede nel covo di conoscenti ed estranei.




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Spazio dell'autrice: Ehh una volta è capitato anche a me di rimanere quasi incastrata sotto la pianta nella sala delle analisi con il vago sentore di sentirmi in trappola XD (cosa non si fa per stare seduti xD) Spero che questo capitolo vi sia piaciuto =w=

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