<37> Jason.

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Mi sveglio di colpo con il panico nella gola. Scanso le coperte dal letto senza neppure curarmi di come ricadono, e la maggior parte si adagia sul pavimento.
La sveglia non è suonata e io sono terribilmente in ritardo.
Devo preparare la colazione per me e per Damien; andare al lavoro; dare una rassettata alla casa.
Fisso la sveglia e grugnisco mentre indosso un paio di calzini, un atto che mi sbilancia e mi costringe a tenermi con la spalla al muro.

Sarà meglio comprarne una nuova perché non posso permettermi nessuno di questi imprevisti.
Sfilo i pantaloni stirati e ben piegati dalla gruccia, tiro su la lampo e impreco perché mi sono preso la pelle del dito, un dolore che non augurerei a nessuno.
Corro in bagno e infilo la camicia. In una manciata di secondi mi sciacquo il viso quel tanto che basta ad aprire gli occhi e darmi una svegliata.

Le iridi nocciola scuro mi lanciano un'occhiata di traverso dal mio stesso riflesso.
Sì, lo so, dovrei muovermi con più calma, però è difficile quando il peso delle azioni grava non solo sulle mie spalle, ma anche su quelle di mio fratello.
Esco in corridoio e fisso la sua porta ancora chiusa.

Strano non vederlo già in piedi.

Come in un lampo la cruda verità mi torna alla mente. Sbuffo e impreco nuovamente.

Damien è in gita.
Come ho potuto dimenticarlo?
Mi passo una mano fredda sul volto e resto per qualche istante con le palpebre chiuse, ridendo di me stesso.
Troppa stanchezza; sono secoli che non mi prendo un attimo di pausa.
Avevo sedici anni quando mio padre è morto in quel terribile incidente, e Damien ne stava per compiere undici.
Da allora, non ho fatto altro che correre senza mai fermarmi: ho dovuto badare a una madre che aveva perso il senno e a un fratello privato della sua voglia di vivere.
Ce l'ho messa tutta solo per loro, spronandoli ad andare avanti.

Il dolore mi lacerava il cuore ogni qualvolta la sera mi nascondevo dentro al letto, le coperte tirate su come un riparo dal dolore.
Soltanto in quel momento di completa solitudine riuscivo a sfogare le mie lacrime e a piangere il mio papà scomparso prematuramente.
Sapevo di non potermi permettere di cedere, non alla luce del sole.
Il pilastro era svanito per l'intera famiglia, eppure sono stato l'unico a farmi forza in un mondo nero e senza speranza.

Il colpo fatale, poi, arrivò quando mia madre tentò di uccidere Damien.
Mi dovetti addossare il compito di crescere un fratello, fornirgli le cure adeguate per la sua successiva patologia, aiutare sia me che lui a vivere in un ambiente sano e, allo stesso tempo, mantenere mia madre nell'istituto psichiatrico.
Non è stato facile, per nulla facile. Sfido ogni ragazzo di appena diciott'anni a prendersi così tante responsabilità.
Per fortuna i nostri genitori misero qualcosa da parte, altrimenti non so proprio come avremmo fatto.

Sorrido triste.
È comprensibile che io sia stanco.
Fisso ancora la stanza di Damien. Chissà come se la starà passando.
Vorrei mandargli un messaggio, ma a quale scopo? Per ricevere indietro solo un secco: "sto bene."
Un'idea fallita in partenza.

Mi dirigo in cucina e preparo un bel caffè. Non esiste niente di meglio per rimettermi al mondo.
Un messaggio suona al cellulare e accendo lo schermo sorseggiando il liquido nella tazza in ceramica.

–Jason, mio padre ha bisogno di quei conti urgenti. Appena vieni al lavoro, passa nel suo ufficio. Mentre tu sgobbi, io mi prenderò una bella pausa.–

Sogghigno e scuoto la testa bonariamente.
È Dave, il mio migliore amico sin da quando andavamo alle elementari. Con lui ho condiviso tutto e, nel momento cruciale, mi è stato accanto come nessun altro avrebbe fatto.

A scuola sono sempre stato un portento nella matematica e non lo dico per vantarmi, però, dove uno impiegava tre secondi a formulare una risposta, io ce ne mettevo uno. La professoressa del liceo mi definì persino un genio, e dentro di me iniziai a pensarlo veramente.

DestinoWhere stories live. Discover now