<62> Daniel.

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Non pensavo che la paura potesse avere dei colori così scuri, o forse, mi ero stupidamente abituato a vederla più chiara.
Adesso, il mio mondo è tornato a tingersi di nero.
Il suo ghigno beffardo mi sbatte contro con violenza, riempie la mia mente e riporta a galla così tanti ricordi da farmi salire in gola un misto tra nausea e disgusto.

Non qui.
Non puoi macchiare la mia felicità.

Tu non hai più il permesso di entrare nei miei spazi, l'ho promesso a me stesso. Sei destinato a inquinare solo le mura della nostra casa, non i miei sogni.
Lo vedo spalancare le braccia e allargare il sorriso.

«Vieni, fatti abbracciare» dice e muove qualche passo nella mia direzione.
Sono un blocco di pietra.
Possibile mi sia dimenticato della paura che mio padre riesce a farmi provare?
È bastato un raggio di sole, uno soltanto, e l'oscurità aveva smesso di sembrare tale.
Stupido.
Mai abbassare la guardia.

Roberta si nasconde alle spalle di Jason, però gli occhi del mostro sono solo su di me, le iridi iniettate del veleno che mi riversa addosso in ogni giornata, inchiostro sul mio cuore.
Mi preme contro di sé, l'odore potente di alcool e fumo copre il profumo del mare, fa persino scomparire la gioia delle candeline.

Spegne ogni cosa sul suo passaggio.

«Buon compleanno, figliolo» sussurra accanto al mio orecchio, il suo fiato mi scatena sensazioni contrastanti e a stento trattengo un conato di vomito.

«Cosa ci fai qui? Come hai saputo...» domando, incapace di terminare la frase.
Credevo di avere abbastanza forza, ma non è stato così; sono il solito agnello tra le sue grinfie.
Ha il potere di trasformarmi in un ragazzino, nello stesso bambino tremante in un angolo di qualche anno fa, percosso dalle sue botte e dalle grida assordanti, il sangue a sgorgare incessante dal mio animo ferito.

Roberta era piccola per ricordare il giorno in cui la mamma se n'è andata.
Io, rammento ogni singolo istante, ogni sibilo di mio padre scagliato su di me, ogni scricchiolio del pavimento mentre si gettava con furia sul mio corpo troppo fragile per riuscire a reagire a quella violenza.
Tutto è impresso sulla pelle, strati che ricoprono solo lividi.
Lividi mai guariti.

Mi fissa e aggrotta la fronte, confuso, poi sembra riprendere il controllo e riesce a mettere in moto il cervello.
«Qualcuno mi ha spifferato dove vi eravate nascosti» si stringe nelle spalle e non dà peso alle sue parole, eppure il suo sguardo diventa tagliente.

«Le mie intenzioni sono piuttosto chiare: voglio riprendere i miei bambini.»

Una frase scontata; conoscevo già la risposta, ed è una litania sentita e risentita.
La prima parte del discorso mi entra nella testa, eppure sono troppo occupato a contrastare il mostro per dargli un vero valore.
Un brivido mi percorre la schiena mentre percepisco il gemito soffocato di mia sorella.
Ha paura.

Devo essere forte.
Devo. Essere. Forte.

Con un guizzo dell'occhio osservo i volti degli altri: hanno perso colore e non sanno come muoversi per non aggravare la situazione.
Molti di loro non conoscono la belva nascosta dietro la facciata benevola di mio padre, e non dovranno mai scoprirla, perché non me lo perdonerei mai se accadesse qualcosa di irreversibile.

«Non ti sembra un orario sbagliato per venirci a reclamare?» dico, dando al tono della mia voce una sfumatura ferma. Dentro, invece, mi sento come una corda di violino pronta per essere suonata.

Jack ride e barcolla, si tiene a stento in piedi.
Quanto ha bevuto?
Mi fa pena, una compassione indicibile.
Come può un uomo gettare al vento la propria vita e ridursi in questo stato? Mi vergogno di mio padre.
Guardarlo è una sofferenza, e sapere di avere degli spettatori di fronte a questa scena mi lacera il petto e mi riempie di imbarazzo.
Vorrei che scomparisse, come per magia.
Perché non può accadere per una volta?

DestinoWhere stories live. Discover now