54. <Frederick.>

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Socchiudo le palpebre con una smorfia, le lenzuola ricadono di lato come un sacco floscio.
Le odio, ma lamentarmi non sortisce l'effetto desiderato, quindi ho deciso di tenerle e stringere i denti.
Apro totalmente gli occhi e osservo il sole illuminare la mia stanza: si riflette sulle foto sopra la scrivania e fa brillare i volti solari della mia odiosa famiglia.
Il suono di un passo nell'aria.
Muovo lo sguardo e un grido di rabbia si forma nel mio stomaco, propagandosi nella gola.

«Cazzo, Mamat! Quante volte devo dirti che non devi fissarmi mentre dormo, in attesa del mio risveglio?» sbraito e gesticolo, coprendo il mio corpo nudo dall'imbarazzo di essere osservato da lei.

Mamat è la nostra domestica sin da quando ne ho memoria.
Quand'ero piccolo pensavo fosse una mummia travestita da donna, tant'era che non invecchiava di una virgola. Ogni giorno era sempre la stessa, e l'ho spesso resa partecipe di questa mia idea: lei si limitava a sorridere e a mostrare i pochi denti che aveva in bocca.
Adesso, posso osservare una spruzzata di bianco nei suoi capelli perennemente scuri, rughe buttate sul suo volto dal tempo ingeneroso e la schiena più curva del normale.
Eppure, Mamat è sempre qui sul posto di lavoro e non si lamenta.
La vedo sollevare la mano e stringere tra le dita una sveglia, o meglio, quel che ne resta.

Diamine, devo averla lanciata contro il muro.

Una volta ho compiuto lo stesso gesto con il mio cellulare e non è andata a finire bene. Per questo motivo ho deciso di comprare una sveglia: meno costosa e più facile da zittire.
Sbuffo e la fisso.

«Va bene, sono sveglio. Contenta?» le dico e passo una mano tra i miei corti capelli.
Annuisce e si schiarisce la gola, resa rauca dalle troppe sigarette.
Io e Mamat siamo soliti fumare assieme. Mia madre non approverebbe di certo, se lo venisse a sapere, e magari prenderebbe la decisione di licenziarla. Nessuno di noi due ha voglia di mettersi nei guai e manteniamo il segreto.

«Oggi niente scuola, signorino. Rammentate che giorno è?» domanda mentre inizia a sistemare i vestiti sparsi a terra, ad ogni piegamento le sue caviglie scricchiolano.

Spalanco gli occhi.
Merda.
La laurea di mia sorella.
Me l'ero completamente dimenticato.

«Dimmi che posso fingermi malato, o che ho battuto la testa nel sonno e non riesco a svegliarmi» la supplico, come se avessi ancora otto anni.
Ma ormai ne ho diciassette, e Mamat mi riserva uno sguardo di rimprovero, un'occhiata che mi penetra il corpo.
Stringo la mascella. Perché dovrei partecipare alla sua laurea?
Ah, già: per ricordarmi il fallito che sto diventando, al contrario della mia famiglia perfetta.
Mio padre è un architetto rinomato e, grazie alla sua passione – od obbligo, come lo chiamo io –, ha deciso che anch'io e mia sorella dobbiamo seguire le sue orme, e le orme prima di lui fino ad arrivare al mio defunto nonno.

Insomma, una generazione tutta uguale.

Mia madre è invece un avvocato, e la sua istruzione rigida e severa ha fatto sì che io la odiassi e la temessi allo stesso modo.
Sì, la temo davvero.
Può trasformarsi in una furia, un ciclone in grado di travolgermi e farmi sentire insignificante.
Per questo ho deciso che, nel mio piccolo, mi sarei ribellato.
Che stronzata.
Mi sono fatto il tatuaggio già due anni fa, e non ho ancora avuto il coraggio di mostrarglielo, così come tolgo il piercing dalla lingua ogni qualvolta torno a casa.
In strada fingo di essere un cucciolo di leone ma, quando sono in sua presenza, mi trasformo in un agnello terrorizzato.

Mamat tira fuori dall'armadio i miei vestiti per le occasioni serie: completo scuro, camicia bianca e cravatta abbinata.
Sono davvero pronto a passare la mia intera giornata sotto i colpi potenti di due iene? Purtroppo per me, mia sorella ha ripreso da mia madre: la sua unica differenza è che gode nel farmi notare quanto io sia imperfetto.
Abbiamo nove anni di differenza e, da quando sono nato, lei ha sentito in qualche modo il dovere di entrare in competizione con suo fratello minore.

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