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La struttura bianca si staglia contro il cielo, la facciata è una distesa di finestre le une accanto alle altre.
I parcheggi dell'ospedale si trovano proprio a ridosso dell'entrata, e a fatica mi faccio strada tra le auto quasi appiccicate, arrivando a pochi passi dalle porte automatiche che si aprono con un sibilo flebile.
L'odore di disinfettante mi investe con una zaffata potente, e riconosco delle note accennate del profumo dell'intonaco appena steso sui muri: un bianco candido tendente al panna.

Avanzo nell'atrio principale fino agli ascensori di metallo, ce ne sono circa cinque e i numeri in alto scandiscono la loro venuta.
Un gruppetto di persone attende assieme a me, alcuni chiacchierano spensierati, altri sono infermieri nelle loro diverse tenute: blu; rosa; rosso; arancio.
Non ho mai compreso la differenza tra i colori, ma tutto ciò non deve interessarmi; l'importante è che sappiano portare a termine il proprio lavoro.

Lancio un'occhiata al display posto sul muro, le frecce della prenotazione del piano brillano insistenti, però nessuno degli ascensori sembra intenzionato a scendere; salgono tutti. 
Attendo, non ho nessuna fretta.
Dopotutto sono arrivato con una mezz'ora di anticipo proprio per non ritrovarmi in una situazione scomoda.

Alcuni si spazientiscono e se ne vanno in direzione delle scale: una colonna infinita di gradini in marmo.
Sbuffo e fisso con insistenza il display nella speranza che il mio sguardo penetrante lo aiuti ad arrivare con più celerità.
Ovviamente lui pare ignorarmi, lampeggia e si fa beffe di noi.
Solo dopo una manciata di minuti un suono basso annuncia l'arrivo di uno di quei cassoni, eppure non mi muovo. Ogni persona presente si precipiterà nella sua direzione, spintonando per fare prima degli altri, ed è nel mio interesse salvarmi dall'ingaggiare un incontro di pugilato per uscirne sconfitto e con qualche livido di troppo.

Proprio come previsto quanti più tentano di stiparsi nel vano, schiacciati come sardine in un agglomerato grottesco. Attendo ancora un po' e, quando le porte si aprono, rivelano un ascensore completamente vuoto.

La pazienza mi ha ricompensato.

Schiaccio il pulsante con il numero quattro e lo vedo illuminarsi di rosso su uno sfondo grigio.
Si susseguono alcuni scambi tra i vari piani, gente che va e gente che viene, e alla fine arrivo al mio, immettendomi in una lunga sala: si dirama da entrambi i lati e termina con due porte alte e massicce di colore arancione.
Stacco una delle etichette affisse alla colonna del mio reparto e scruto il numero impresso.

Due.
Sono stato fortunato.

Mi siedo su una delle sedie poste contro il muro, le altre non sono ancora state occupate.
Non mi resta che attendere.
Sollevo il polso e assimilo l'ora impressa sul mio orologio: un semplice quadrante e un cinturino di cuoio scuro un po' crepato per via del tempo trascorso dal suo acquisto.
Le due e dieci.
Venti minuti e si comincia.

Neppure una manciata di secondi e dall'ascensore esce una signora vestita in modo elegante, la corta gonna lascia spazio a una calzamaglia a righe e un paio di scarpe con il tacco basso.
Osservando i suoi capelli e le rughe attorno agli occhi, stimo un'età variabile dai quarantacinque ai cinquanta.
Di tutti i posti possibili e vuoti, lei viene a sedersi proprio al mio fianco e porta con sé un profumo acre di rosa.
Davvero fastidioso.

Giro il capo e cerco di ignorarla.
Vorrei evitare di intavolare un discorso, ma so che tanto sarà inevitabile.
La signora si sporge, fatica a leggere il foglio attaccato al muro e si sistema meglio gli occhiali sul naso. Con le dita scarta una caramella e se la porta alla bocca, la passa da una parte all'altra delle guance, talvolta succhiandola.

Diavolo, un cammello farebbe meno rumore.

«Sa per caso dirmi quando iniziano le visite?»

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