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Il paesaggio scorre veloce attraverso i finestrini dell'auto, si alterna tra il verde dei prati e l'azzurro del cielo. Le nuvole candide sembrano dipinte, immobili su quella distesa infinita.
Fisso la staccionata di legno sul bordo della strada.
Chi non ha mai immaginato un essere misterioso ed etereo correre sul filo della recinzione, impegnato a compiere salti sovrumani, acrobazie, scambiando un sorriso furbo con noi rinchiusi in una prigione senza via d'uscita?
Vorrei che quell'essere assumesse sembianze reali e mi trascinasse in un luogo lontano.
Affondo la testa nell'imbottitura del sedile. Mio fratello accanto a me è inquieto: guida con fare pacato, però, talvolta, lo sento tirare su con il naso e sospirare.

«Siamo quasi arrivati» sentenzia mentre mantiene lo sguardo fisso sulla strada.

Sospiro a mia volta. Non c'era bisogno di dirlo: avevo già riconosciuto il viale alberato in lontananza.
Riesco quasi a sentire il profumo dei ciclamini sparsi nelle fioriere appese alle finestre, e il cigolio di una sedia sotto il sole attorno al tavolo rotondo di un bianco candido.
Stringo i pugni e cerco di calmarne il tremore.

Posso farcela.
Sono pochi minuti al mese, nulla più.

La macchina viene parcheggiata in prossimità di una grande serra: una costruzione che getta un'ombra imponente sulla bassa erbetta rigogliosa.
Metto i piedi a terra e mi accorgo di avere due pietre al posto delle gambe, il solo alzarmi mi provoca una fitta di dolore.

Non voglio trovarmi qui.

Mio fratello chiude le portiere, posso udire il click delle serrature, un rombo assordante a decretare la fine a ogni mia via di fuga.
Osservo le altre persone e scruto i volti con il fiato trattenuto in gola per paura di scorgere la figura di mia madre.
Non mi sembra di vederla.
Il cuore mi martella nel petto, lo riesco a udire persino nelle orecchie. Difficile fermare la sua corsa, eppure provo a focalizzarmi su un episodio felice del mio passato per imprimerlo nella mente.
Vuoto. Non riesco a pensare a nulla.

Solo all'inevitabile.

Sussulto alla presenza di mio fratello accanto a me.
«Le infermiere dicono che sta riposando. Andiamo» mormora avviandosi con passo marziale verso l'entrata della struttura.
Lo seguo come un burattino ubbidiente, un automa senza alcuna possibilità di scelta.
Il luogo profuma di buono e dalle larghe finestre filtra il sole e inonda le pareti azzurre nel corridoio. Sembrano il cielo, e forse è stato proprio questo l'intento dei costruttori.
Se solo fosse vero e potessi volare via.

Inizio a contare ogni passo.
Uno, due, tre.
Posso farcela.
È complicato convincere me stesso, e so che a breve il mio subconscio rifiuterà quella scintilla di illusione, gettandomi nuovamente nel panico.

114.
Siamo arrivati.

Fiori freschi in un vaso sul comodino; una vestaglia bianca ripiegata sopra una sedia di legno, riposta con cura sotto la scrivania del medesimo materiale; un acchiappa sogni appeso alla finestra aperta tintinna, le tende frusciano.

«Mamma.»
Mio fratello si avvicina alla figura stesa sul letto: il viso è magro; i capelli sono raccolti in una treccia disfatta al lato del volto; la veste è color pesca e ai piedi porta un paio di calzini bianchi.
Il fantasma della donna forte di un tempo.

«Joseph» mormora lei e alza un braccio nella sua direzione.
Vedo mio fratello irrigidirsi, eppure sorride comunque e prende quella mano delicata e fragile tra le sue.
Joseph.
Il nome del mio defunto padre.

Mio fratello si chiama Jason.

Sin da piccolo hanno sempre decantato la sua somiglianza con nostro padre: gli stessi occhi scuri; gli zigomi alti; la mascella pronunciata; il sorriso da bravo ragazzo con quel pizzico di malizia che non guasta.

DestinoWhere stories live. Discover now