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«Damien, tutto bene?»

Le mani di Daniel mi afferrano per le braccia, e sono una morsa capace di bloccare subito la mia camminata svelta.
Alzo lo sguardo su di lui e, con un tuffo al cuore, mi vedo riflesso nelle sue iridi: ho le palpebre spalancate; le guance rosse; il respiro spezzato.
Lo osservo inumidirsi le labbra preoccupato più del solito, e non posso dargli torto; capita di rado, ormai, di vedermi in questo stato pietoso. Durante il primo anno, invece, ho trascorso la maggior parte del tempo a nascondermi nei bagni di scuola per piangere, e Daniel è sempre stato lì, a tenermi la mano proprio come in questo momento.
Provo a pronunciare un "sì", eppure il fiato non esce e mi limito a mimarlo. Concentro l'attenzione su un punto indistinto della parete, attirato da chissà quale, insignificante, dettaglio.
Questa visita infinita al museo non mi aiuterà certo a trovare uno svago per stare meglio.

«Dai, andiamo fuori. Alla prof ci penserò io» dice il mio amico guidandomi verso l'ingresso.
Adesso fisso il pavimento: un'alternanza di mattonelle color crema e bianco panna. Mi aggrappo alle dita del mio amico come se non avessi più nulla a tenermi con i piedi per terra.
È lui la mia forza in questo frangente e, senza, rischierei di crollare.

L'aria fresca ci accoglie e non posso fare a meno di lasciarmi scappare un sospiro di liberazione. Il caldo della struttura mi si chiudeva addosso con il rischio di farmi svenire.

«Ok, dimmi tutto. Parti dall'inizio» esordisce Daniel una volta seduti su un muretto poco distante dal museo.
Deglutisco.
Dovrei inventare una scusa? Potrei mentire, sì, e dire che in realtà mi sento strano per la mia patologia, un giramento di troppo o, che so, il solito formicolio agli arti inferiori.
Mi specchio nei suoi occhi limpidi, e il timore di vedermi fare marcia indietro è forte, mi acceca con la sua preoccupazione.
No, Daniel sa come leggermi dentro, e non avrebbe senso tirare su una storiella già ascoltata da una vita.
Lascerò stare i particolari più intricati e rivelerò lo stretto necessario.
Sarebbe un dolore troppo forte per entrambi se gettassi la verità sulla nostra tavolata perfetta.

Non è ancora il momento giusto.

Una fitta alla tempia mi costringe a serrare le palpebre e a portare una mano a massaggiarla con forza, finché il male non affievolisce. Non mi fa bene tutto questo stress. Aumenta a dismisura i miei problemi fisici, nonché mena un fendente al mio umore precario.

«Sai che puoi fidarti» mi incalza incrociando le gambe, portandosi ancora più vicino.

Sospiro.
Va bene, posso farcela.
Non appena inizio a parlare, percepisco le lacrime pizzicare ai bordi degli occhi, e deglutisco per ricacciarle indietro. Che figura farei se uno dei miei compagni di classe uscisse proprio in questo momento?

«Sei già al corrente della situazione con mia madre e di quanto questo mi renda triste» esordisco, tiro su con il naso e mi sento impossibilitato ad attingere alla sicurezza data dalla mia maschera. Le difese sono abbassate, dimezzate, o addirittura annullate.
Annuisce attento e non mi stacca gli occhi di dosso.

«Be'... Freddie ha sbirciato tra i fascicoli della preside, e ha scoperto del suo ricovero in una clinica psichiatrica. In parole povere: ha iniziato a fare battute sciocche di come io sia malato come lei, oppure a prenderla in giro, sai, se le mettono la camicia di forza o altro» lo confesso torturandomi le dita.

Strabuzza lo sguardo. «Perché non me lo hai detto? Cazzo, ti avrei aiutato a dirgliene quattro! Non si prende di mira chi non può difendersi» dice infervorato e si strofina le mani in un gesto nervoso.

E non ha ancora sentito la parte peggiore.

«Lui...» inizio a dire, ma un nodo mi si ferma nella gola, impedendomi di proseguire.
Se rivelassi il doppio gioco di Freddie, si potrebbe benissimo risalire al mio. A Daniel basterebbe poco per capire come il mio comportamento sia soltanto frutto di anni e anni di duro lavoro spesi a perfezionare le doti da attore.
E se lo perdessi? Se mi abbandonasse? Non potrei andare avanti senza il suo aiuto.

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