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Una nuova goccia si tuffa oltre la fronte e scende a capofitto nel vuoto, atterrando fastidiosa sulla pelle della mia mano.
È solo una delle tante attaccate alle ciglia e ai capelli; ormai ho rinunciato a toglierle da lì.

Sollevo intimorito lo sguardo su Amelia, e i suoi occhi scuri tra il grigio e il verde si rispecchiano nei miei. Limpidi e delicati.
Ha ascoltato le mie parole disperate senza fiatare, e si è limitata a stringermi le dita più forte cercando di tenere dentro il vortice di emozioni suscitate dal discorso. Ha osservato le mie lacrime amare senza emettere un giudizio, e la sua espressione è mutata, frase dopo frase, fino ad adattarsi al racconto.

Sì, si è trattato di un vero e proprio racconto, e non so neppure con che coraggio mi sia deciso a rivelarle tanto.
Sarà stato grazie alla sua sicurezza e gentilezza trasmessa?

No. La verità è che ne avevo bisogno.

Un dannato bisogno che mi ha logorato durante i giorni di questa faticosa vita, che mi ha sfiancato con la sua crudeltà e ha tirato colpi alla mia debolezza, fino a portarmi a cedere.

L'ho resa partecipe dei miei trascorsi con Freddie e di quando, sin dal nostro incontro avvenuto qualche anno fa, si sia sentito in diritto di trattarmi come una bambola di pezza su cui infilzare i numerosi aghi, nella speranza di vedermi sanguinare.
Il suo è stato un gioco estenuante, eppure non era mai riuscito a intagliare la mia carne così a fondo da tirare fuori il mio dolore trattenuto. In seguito al suo ricatto, però, qualcosa è esploso, e mi sono sentito stanco di sopportare a denti stretti e lasciar correre.

Da lì, sono arrivato a parlare di mia madre, della sua situazione in ospedale e di quanto mi faccia soffrire la sua momentanea perdita di memoria nei miei confronti.
Se le ho detto che mi incolpa della morte di mio padre? No, non l'ho fatto, e Amelia non ha domandato.

Mi ha permesso di sfogarmi, di passare da un argomento all'altro senza seguire un filo logico, di ingarbugliarmi e slegarmi a mio piacimento.
Ed è proprio adesso che si complica la faccenda: sto scendendo troppo in profondità, mettendo a nudo una parte di me ricoperta da così tanti strati da non essere più capace di contarli.

«Qual è il problema con Freddie? Cosa ti turba, Damien?» chiede lei per la prima volta da quando abbiamo iniziato a parlare e da quando, dolcemente, ha asciugato le mie lacrime con un fazzoletto al profumo di lavanda.

Cosa mi turba? Un milione di cose.
Potrei partire dall'essere sicuro che, le sue minacce, si getteranno su di me come un treno in corsa, e che non si fermerà neppure dopo la visione del mio corpo esanime.
Potrei dirle di come ogni ragazzo a scuola mi riserverebbe sguardi colmi di compassione, o il dito puntato di accusa, e magari l'appellativo: "il figlio della pazza."

Perché è questo il comportamento delle persone: fare di tutta l'erba un fascio.
Se un familiare ha qualche problema grave, sembra normale pensare come anche quelli accanto debbano inevitabilmente soffrire degli stessi sintomi, rendendoli così a loro volta malati e da scacciare.
È un ragionamento umano.
Un fottuto ragionamento umano.

Mi bagno le labbra con la punta della lingua e penso in quale modo trovare un argomento per chiarire i miei pensieri.
Lei stringe la presa, come a volermi riportare con i piedi per terra e impedirmi di viaggiare nel mio limbo di insicurezza.

«Dimmi ciò che provi» aggiunge avvicinandosi ancora di più, e le nostre gambe incrociate si sfiorano.
Il suo sguardo esprime chiaramente che non ammetterà alcuna bugia da parte mia.
Ormai non posso più risollevare la maschera. È rotta, sbriciolata in terra.
Sospiro, uno sbuffo lungo e doloroso.

«Non voglio restare da solo» ammetto con fatica e lei corruga la fronte e arriccia la bocca.

La trova una motivazione così strana?

DestinoWhere stories live. Discover now