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«Ehi, Dami.»

È la voce di Daniel.
Fisso il foglio sul banco: a parte qualche scarabocchio incomprensibile a bordo pagina, non sono riuscito a disegnare altro.

La mia mente è altrove, totalmente distaccata dal mondo reale.
Sospiro, uno sbuffo davvero lungo e afflitto, poi fisso il mio amico e lui mi scocca un sorriso complice. «Dai, non è la fine del mondo» sussurra molto piano per non innervosire la professoressa di Figura Disegnata.
È già la terza volta che lo redarguisce, ed è meglio evitare l'imminente incontro con la preside.

Sposto di nuovo l'attenzione sulla modella seduta sopra un piano rialzato di legno, proprio al centro della classe. Lei legge un libricino dalla copertina blu e sembra perfettamente a proprio agio, sebbene indossi un paio di slip bianco candido, l'unico indumento sulla sua pelle rosea e in apparenza fresca.
Il foglio ruvido privo dei miei soliti segni mi cattura, rigiro la matita tra le dita, la porto persino sotto al mento in una posa di vaga contemplazione mentre cerco di ignorare le occhiate eloquenti di Daniel.

Vuole parlare.

Beh, che lo faccia da solo.
Non sono in grado di affrontare una battaglia contro le sue incessanti domande. Sono già abbastanza impegnato nello sforzo di ricambiare il sorriso di Amelia che, dall'altro lato dell'aula, mi guarda di continuo.
Non ho idea di cosa io abbia fatto per meritare una simile punizione.
Possibile che il fato desideri complicare la disastrosa situazione in cui versa la mia vita?
Lo immagino quasi come un uomo misterioso seduto a una lunga tavola piena di fogli, intento a ripescare, in quel mare, soltanto il mio nome, il sorriso ambiguo e crudele sul volto.

Spingo più in fondo il gommino della cuffia e provo così a estraniarmi dal resto della classe.
La musica si diffonde con dolcezza: "La grande Cascade", una sinfonia di pianoforte, chitarre e altri strumenti, uniti in una melodia mistica e perfetta.
Sciolgo le spalle con un veloce massaggio e stringo meglio la matita. Traccio le linee generali della modella, la costruzione dell'anatomia, la posizione del volto e i dettagli principali, e la punta polverosa della grafite mi segue dapprima con riluttanza, in seguito cattura la fiducia da me trasmessa e il tratto risulta maggiore e deciso.

Ritrarre la ragazza senza aggiungere altro: questo è il compito stabilito dall'insegnante.
Difficile per me che sono solito inserire particolari in più, talvolta anche piuttosto strani o grotteschi.
Si tratta pur sempre di arte individuale e i miei compagni non sembrano turbati dai miei disegni, anzi, nella maggior parte dei casi ne sembrano attratti.
E poi, per fortuna, non sono il solo a sfogare in questo modo gli istinti più reconditi della fantasia: molti degli alunni qui presenti tendono ad ampliare lo sfondo con l'aggiunta di dettagli inventati o, come nel mio caso, con una grande quantità di nero.

Senza quasi volerlo mi focalizzo sulla figura realizzata dal compagno al mio fianco: ha raffigurato la modella con la gola totalmente tagliata e dalla quale fuoriescono ganci e frecce appuntite conficcate nel muro di mattoni alle sue spalle.

Macabro.

Mi chino in avanti e sfilo un singolo auricolare dall'orecchio.
«Christopher, il compito era quello di disegnarla, nient'altro» bisbiglio un po' per non essere udito dalla professoressa, un po' per il timore dell'ignoto, non riuscendo mai a prevedere le reazioni di questo tipo.
Si volta a guardarmi e osservo la sua fisionomia: l'anello d'argento scintillante al naso; il lobo dell'orecchio penzolante con il dilatatore scuro; il casco di Dreads aggrovigliati fino a sembrare un cesto di vimini; il maglione largo a lasciare scoperta una buona parte del collo e del petto.

Fa una smorfia. «'Sti cazzi» ciancia, alza le spalle ossute e prosegue a disegnare la sua tremenda decapitazione, ripassa parecchie volte la punta della matita sul sangue prodotto dalle ferite.

DestinoWhere stories live. Discover now