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«Quella benda?» domanda Jason, occhieggiando al mio braccio fasciato sotto cui pulsa il tatuaggio bianco, desideroso di riunirsi alla sua controparte lontana.
Alzo le spalle. Sono davvero intenzionato a ricevere una ramanzina da mio fratello?
Mi lascio andare a uno sbuffo prolungato.
So già che me ne pentirò.

«Io e Amelia ci siamo fatti tatuare un disegno e, prima che tu lo dica, non ho subito troppo stress ed è stata una cosa da poco per la mia malattia» dico, scoccandogli un'occhiata storta.
Sempre meglio alzare le mani e mettere le cose in chiaro, perché quando si tratta di mio fratello può accadere qualunque cosa, e sarebbe capace di attaccarsi a un singolo dettaglio fuori posto, pur di assillarmi.
Lo osservo socchiudere le palpebre, una smorfia impercettibile sulle labbra.

«Quando andrai alla prossima risonanza, parlane con i ragazzi del centro» si raccomanda, e io alzo gli occhi al cielo.

«Ovvio. Lo sai, mi fanno compilare un modulo, e stavolta segnerò positiva la casella relativa ai tatuaggi. O vuoi forse farlo tu personalmente, se non ti fidi di me?» gli domando con un sorriso ironico.
Risponde con un semplice versaccio e si volta, versando il caffè nella sua tazza di ceramica.
Magari sono paranoico, ma lo vedo distratto, e non per il nostro attuale discorso.

«Jas, tutto bene?» mi informo, trafficando con la mia borsa per estrarre le cartacce inutili che tendo ad accumulare nel tempo, come scontrini o volantini inutili.
Annuisce e non mi guarda, continua a far volteggiare il liquido nella tazza in un moto ipnotico.
Stringo le labbra poco convinto. Cavolo, mio fratello, proprio come me, è un libro chiuso. Siamo difficili da comprendere: teniamo tutto dentro e a non lo lasciamo uscire anche a costo di sopportare un peso insormontabile.
Jason, poi, ha dovuto affrontare ogni problema da solo. È normale non voglia rendermi partecipe.

Prendo un respiro. «Vuoi proprio che mi metta nei tuoi panni? Va bene, ti accontento» dico e mi avvicino. «Cosa succede, Jason?», domando, costringendolo persino a voltarsi nella mia direzione, «e, se rispondi negativamente, giuro che non vado a scuola per tormentarti» lo minaccio.
La mia reazione lo porta a sorridere, sebbene mantenga ancora la fronte corrucciata.
Mi fa strano avere un rapporto del genere con lui; siamo passati da essere quasi estranei, a intavolare discorsi delicati come questo, o almeno credo lo sarà.

Di certo, anche lui starà provando le mie stesse sensazioni.

Annuisce piano. «Ti sembrerà una cavolata, ma...» si morde un lato del labbro inferiore, torturandolo. «Secondo te, a che età ci si sposa?» domanda e punta il suo sguardo nel mio.

Resto a bocca aperta per qualche secondo. Che diavolo di domanda è? Insomma, cosa vuole che io ne sappia!
Per me, il matrimonio è un argomento tabù e decisamente lontano dalla mia portata.
Sbatto le palpebre un paio di volte. «Io... credo quando ci si senta pronti...?» rispondo dubbioso.

Sul serio? È il mio miglior parere disponibile? A una soluzione simile c'era di sicuro arrivato anche lui senza questo stupido intervento.
Mi trovo a disagio e mi allontano di qualche passo, le spalle tese.
Jason sospira amareggiato e sorseggia il caffè, lo sguardo perso in chissà quali pensieri.

Forza, Damien, puoi farcela a dargli una mano e non risultare un completo idiota.

«Vuoi sposare Rochelle?» domando e lo osservo mezzo strozzarsi con il liquido.

«Ma cosa vai dicendo? Cioè... che dici?» esclama nervoso.
Sta annaspando, e mi viene quasi da ridere, però mi trattengo controvoglia; è così difficile prendere mio fratello in contropiede, perché di solito tiene ogni cosa sotto controllo. A parte i sentimenti. Quelli no, non sa come gestirli, ed è un tratto genetico della nostra famiglia.
Cosa lo preoccupa? Forse il fatto che, se sposasse la sua fidanzata, dovrebbe scegliere tra andare a vivere con lei o lasciare me da solo?
Maledizione, sono ancora una volta un impedimento per qualcuno, una zavorra impossibile da lasciare indietro.

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