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La struttura dell'ospedale è fredda. Le persone sono rumorose.
Mi guardo attorno.
Ho la sensazione di ricordare questo esatto giorno.
L'ho già vissuto?
Vago per i corridoi e la gente non sembra vedermi; sono come un fantasma.
Mi blocco.
Una stanza in particolare attira la mia attenzione, e il corpo si riempie di brividi. Non andare, dico a me stesso, eppure i miei passi si dirigono in quella direzione senza che io riesca a fermarli.
Le pareti non somigliano alle altre già viste: queste sono di un bianco acceso molto simile a un flash prodotto continuamente da una macchinetta fotografica.
O sono forse io a vederle così brillanti?
Un ragazzino è chino accanto al lettino, l'espressione sbigottita, gli occhi cerchiati, segni di lividi ed escoriazioni sulle braccia.

Sono ancora in grado di respirare?
Non lo so, l'aria si rifiuta di entrare nei polmoni.

Vorrei abbracciare quella povera anima indifesa, dirgli che i prossimi anni non saranno facili per lui e che tutto andrà sempre peggio, ma che non dovrà buttarsi giù. Dovrei prepararlo alla vita, tuttavia resto fermo, incapace di muovere un singolo muscolo.
Sto piangendo?
Non riesco a capirlo, l'aria è diventata improvvisamente troppo calda, e le lacrime si asciugano in fretta.
Un infermiere si avvicina al ragazzino, gli posa una mano sulla schiena e gli dà qualche leggera pacca di conforto.

«La tua famiglia sta arrivando» mormora nella speranza di consolarlo. Purtroppo, niente lo aiuterà a sollevarsi: è solo, spaurito, e ciò di cui aveva bisogno, non c'è più.

Passi. Passi molto veloci.

«Joseph!»
Un'esclamazione disperata fa sussultare il bambino, scrollando le sue esili spalle come rami colpiti dalla pioggia inclemente. La donna si getta sul letto dove, solo in quel momento, noto la sagoma di una figura celata da un lungo lenzuolo bianco.

Le lacrime scendono copiose.
Sono le mie?

Volgo lo sguardo verso la porta. Due occhi sgranati osservano la scena, i capelli scomposti e il labbro tremante. Un adolescente che si appresta a diventare maggiorenne.
Quanto vorrei tranquillizzare anche lui, perché ben presto si ritroverà ad affrontare la peggiore delle situazioni; un inferno sceso in terra.

«Rispondi, amore mio. Rispondi» sussurra la donna cercando la mano dell'uomo sotto le lenzuola. Un medico si avvicina premuroso.

«Signora, le consiglierei di non muovere il corpo di suo marito» mormora, e le fiamme nello sguardo di lei divampano, a breve esploderà.

Ricordo ogni singolo istante; ogni parola; ogni fiato; persino il ronzio delle lampade accese.

«Il corpo di mio marito non sarebbe qui, se non fosse per colpa sua» grida schiaffeggiando forte la mano del medico, allontanandolo.
«Sei un demonio, hai ucciso mio marito!» grida furiosa e si getta con le dita tese sul ragazzino, che la osserva con paura e sgomento. Lo scrolla per le spalle, desidera vederlo scomparire.

Non voglio trovarmi qui, non voglio rivivere nulla di tutto questo.

«Mamma, Damien non ha fatto nulla.»
Jason interviene e tenta invano di placare la sua rabbia.
Il giovane fratellino balbetta e piange, un fiume di lacrime amare e colpevoli.
Lo sa da sé di avere ucciso suo padre, non c'è bisogno che lei glielo ricordi.
La colpa lo accompagnerà per sempre, imprimendosi sul suo cuore.

«Damien.»

Al suono di quelle parole mi volto e noto subito che l'ambiente è cambiato: sono a casa mia, ad essere precisi nella mia stanza, dove l'orologio regalatomi da mio padre ticchetta.
Jason mi fissa, e stavolta è proprio me che guarda; non sono un semplice spettatore.
Ha il volto segnato, è diventato grande, e nei suoi occhi c'è amarezza e sofferenza.

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