CAPITOLO 118. Fall in love.

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La notte calò velocemente. Fissando, seduta ai piedi del divano, al di fuori della finestra riuscivo a percepire quel vento incessante che scuoteva le folte chiome dei cipressi o dei pini posti in giardino. Era una notte strana, era una notte fredda e cupa, era una notte fin troppo misteriosa. Non riuscivo a chiudere occhio: forse l'incontro poco gradito avvenuto tra i corridoi con quella strana persona mi impediva di rilassarmi del tutto e di farmi dimenticare, per quanto fosse possibile, l'accaduto. Tremavo come una foglia, e non so se per la paura avuta in quel momento o per altro. So solo che fui costretta ad alzarmi dal mio posto per raggiungere la stufa accesa posta accanto alla TV. Ritirai le gambe al petto sfregando le mani, di tanto in tanto, sulle gambe. Rimasi incantata ad osservare la luce che emanava quell'oggetto e socchiusi gli occhi quando un calore invitante toccò la mia pelle.

Una cosa era certa: io stavo giocando con il fuoco, nel vero senso della parola. Stavo prendendo una brutta piega e fare sempre ed esclusivamente di testa mia non avrebbe potuto portare a buoni risultati. La negatività era la prima cosa da escludere... ma non ci stavo riuscendo. Dovevo imparare ad ascoltare, imparare a stare alla larga da continui pericoli e imparare a fidarmi. Perché per quanto lo facessi con Justin c'era ancora qualcosa che mi bloccava e che mi impediva di esprimermi del tutto. Ma il problema ero io, ero stata sempre io. Lui aveva fatto di tutto, e quando dico di tutto è così, per proteggermi e stava ancora continuando a farlo! Ma perché allora non riuscivo ad ascoltarlo o, semplicemente, ad vitare ogni minimo problema? Dovevo iniziare a cambiare, avrei potuto condurre io stessa la nostra relazione verso la fine. La fiducia in un rapporto è la prima cosa. Non che non mi fidassi di lui ovvio, ma evidentemente ero io quella troppo chiusa, quella che voleva sempre fuggire dai problemi senza affrontarli. Perché? Perché non ne sentivo il bisogno, perché non ne trovavo il motivo. Sospirai, torturandomi tra i denti il labbro inferiore. Poco dopo, il familiare sapore del sangue sfiorò la mia lingua. Osservai la stanza che mi circondava e mi resi conto che non avevo mai realmente visitato quell'immensa casa che ci ospitava. Mi alzai da terra, camminando lentamente senza procurare rumore, prima di varcare un lungo e buio corridoio.

La casa dei nonni di Justin era enorme. La cosa che caratterizzava ogni stanza era il familiare odore di vaniglia e foto su foto che ritraevano Justin piccolo con i suoi nonni. Da quello che mi aveva sempre raccontato lui il legame che li univa era molto forte. Fin da piccolo trascorreva intere giornate qui e cercavo di ripercorrere, mentalmente, quei momento osservando varie foto. Continuai a varcare porte su porte, stanze su stanze ma una, come mi aspettavo, mi colpì maggiormente. Non era grande, ma nemmeno piccola, ma era abbastanza per essere considerata come "la stanza della musica." Al centro di essa, infatti, si presentava un grande piano forte suppongo, coperto però da un telo bianco. Mi avvicinai, facendo cadere il lenzuolo a terra e osservando effettivamente quello che avevo poco prima ritenuto. Era un gran bel piano, con il legno ricamato in vari punti. Per quanto antico fosse, non aveva la minima parte rovinata e potei constatarlo girandoci intorno e osservandolo come se fosse un oggetto prezioso da mantenere e conservare in eterno. I miei piedi nudi solcavano la superficie del parquet, tastando qualche trave di legno cigolante. Le mie dita accarezzavano e premevano vari tasti, emettendo suoni vaghi e di diverse tonalità. Non avevo mai suonato il piano. Ricordo che da bambina mio padre insisteva affinché imparassi a suonare uno strumento musicale ma l'idea di vedermi come una pianista, un giorno, non mi entusiasmava per nulla. E fu proprio in quel momento che decisi di iniziare a scrivere, maturando un profondo interesse per la scrittura e per tutto ciò che la circonda. Sapevo che Justin suonava vari strumenti musicali, tra cui proprio questo. Non avevo mai avuto modo di sentirlo suonare e l'idea allettante di andare al piano superiore, svegliarlo e portarlo qui per fargli suonare qualche melodia mi stava divorando. Ma decisi, comunque, di evitare: non lo avrei mai svegliato in tutta sincerità. Sapevo quanto era importante per lui recuperare le forze e avrei sempre trovato il momento o l'occasione di portarlo qui. Mi chiesi il perché avesse evitato di mostrarmi questa stanza, mi chiesi il perché avesse escluso questa stanza dalla parte della casa ancora da vedere. Forse qui troppi ricordi affioravano la sua mente, forse aveva evitato per non raccontarmi un'altra lunga e "noiosa" storia, proprio come la definiva lui. Ma la verità era che avevo sempre amato ascoltare la sua vita passata. Era il primo ragazzo che conoscevo in vita mia con così tanti segreti. Era il primo ragazzo che non si confidava del tutto con me e, per esperienza avuta con vari amici, potevo confermarlo. Era chiuso, particolarmente chiuso. Ovviamente non con tutti, ma con chi serviva. Evitava di raccontare alle persone di come stava, di come si sentiva o, semplicemente, se aveva bisogno di qualcosa o meno. Non gli piaceva, diceva sempre. Preferiva tenersi tutto per se e risolvere le sue faccende da solo, senza l'aiuto di nessuno. Alcune volte avevo persino paura a chiedere o ad avvicinarmi a lui in un momento difficile: trovarmi difronte un tronco era l'ultima cosa che volevo. Lui sapeva che poteva confidarsi con me, sapeva che poteva aprirsi con me in un modo che, magari, non aveva neanche fatto prima d'ora ma doveva farlo. Credeva che "la vita non fosse stata fatta per raccontare agli altri delle proprie sofferenze", non fosse stata fatta per immischiarli in cose che non li riguardavano minimamente. Ma certe volte, confidarsi può davvero aiutare.

Our love suicideWhere stories live. Discover now